Rosanna Paradiso – 15 gennaio 2015
Di chi stiamo parlando? Di 8,6 milioni di bambini orfani in Nigeria.
Questi bambini sono facili vittime di forme diverse di stigmatizzazione. Spesso gli orfani a causa dell’AIDS vedono ricadere su di sé anche lo stigma attribuito ai loro genitori, pertanto non incontrano il sostegno della comunità, vengono spesso isolati e mandati via dai restanti membri della loro stessa famiglia. La loro vulnerabilità li rende degli “esclusi”. Non hanno accesso alle cure sanitarie, all’istruzione, non ricevono nessun tipo di sostegno da un sistema del welfare che in Nigeria non si è mai strutturato.
In Nigeria, un’altra categoria particolarmente fragile è quella dei bambini portatori di una disabilità: nella maggior parte dei casi sono anch’essi discriminati, in quanto la disabilità rappresenta ancora un tabù socio-culturale. Questi bambini vengono spesso abbandonati dalle famiglie a causa di alcune credenze tradizionali che sono molto radicate in Nigeria (cito: il JuJu – Project/Turnaround/EU-08, Tampep, Torino).
Ricordo che durante una delle mie missioni nigeriane con l’associazione Tampep (Alnima Project/2004), lungo le strade di Lagos, intorno alle aree urbane più degradate si potevano vedere ovunque bambini seminudi o coperti di pochi stracci, che chiedevano l’elemosina per strada infilandosi tra le macchine mentre sfrecciavano rumorosamente avvolte in nubi di polvere e smog. A volte, poco distante da un famoso ospedale psichiatrico di Lagos, sostavano uomini completamente nudi, vagando tra la confusione e le risate di scherno dei passanti che, noncuranti della loro sofferenza, li deridevano a causa della loro “malattia”.
Ci sono poi in Nigeria moltissimi bambini che vivono per strada. Mi raccontò una delle ragazze soccorse durante il progetto Alnima: “Mio padre morì quando avevo 10 anni, e mia madre decise che per garantirmi la possibilità di andare a scuola sarebbe stato meglio mandarmi a stare a casa degli zii, in città: così avrei avuto un tetto, del cibo, la scuola…Purtroppo a scuola non ci arrivai mai: mio zio nella notte abusava di me, ed io non potevo nemmeno urlare, perché sua moglie mi avrebbe cacciata dandomi la colpa della violenza che subivo. Nessuno poteva aiutarmi, ero sola, decisi così di scappare. Dopo alcune settimane di viaggio arrivai a Lagos: vivevo per strada, in una sorta di branco con altri bambini come me, soli sotto quel grande ponte dove sorge un villaggio di baracche sull’acqua. Iniziai come gli altri a sniffare la colla, a vivere di piccoli espedienti e molto presto fui avviata alla prostituzione…”.
Questi bambini privi di punti di riferimento, di casa, di sostentamento e di adulti o istituzioni che si occupino di loro rappresentano un decisivo bacino di reclutamento per la criminalità: vengono trafficati e sfruttati nei circuiti della prostituzione, del terrorismo, della delinquenza, e subiscono facilmente violenze sessuali. Avrebbero bisogno di cure e protezione, ma il sistema dei servizi sociali nigeriano non è adeguato a fornire loro sostegno, e più in generale è diffusa nell’opinione pubblica una mentalità che troppo spesso non si schiera dalla parte dei più deboli e delle bambine.
Nella parte settentrionale del Paese, alcuni bambini vengono reclutati dal sistema dell’Almajira: allontanati dalla famiglia ufficialmente per ricevere un’istruzione coranica, vengono di fatto avviati allo sfruttamento nell’accattonaggio, nei lavori umili e nella schiavitù, in quanto si è completamente perso lo spirito originario dell’istituzione.
Non è insolito vedere bambini anche molto piccoli (tra i 5 e 16 anni) lavorare come servi all’interno di famiglie anch’esse povere. Entrando in una casa nigeriana ci si affaccia su una sorta di cortile, piuttosto simile a una piccola isola di terra incolta, su cui sostano bambini con le schiene piegate dai pesi che trasportano, oppure con le mani affondate in grandi bacinelle d’acqua torbida nella quale lavano piatti da cui avranno avuto, forse, la “fortuna” di mangiare gli avanzi degli adulti.
Nelle realtà più povere e disagiate della Nigeria i bambini sono gli ultimi, sono trasformati in un mezzo di profitto. Gli “shelter” (centri accoglienza) fondati a metà degli anni 2000, che avrebbero dovuto ospitare le donne vittime di tratta rimpatriate dall’Europa, in realtà spesso ospitano bambini provenienti da altri Paesi africani e destinati allo sfruttamento nelle mansioni più dure ed umili, e a volte anche alla morte nei pericolosi lavori dentro le foreste. Si tratta di bambini tra i 5 e i 10 anni, completamente in balia di trafficanti e criminali.
Human Rights Watch riferisce che le ragazze rapite dai terroristi di cui hanno molto parlato i media sono state violentate, obbligate a matrimoni forzati, costrette a convertirsi all’Islam sotto la minaccia della morte. Una delle piccole vittime aveva solo 15 anni. Secondo i racconti delle ragazze sopravvissute alla prigionia nel campo di Gwoza, alle ragazze veniva continuamente detto di non preoccuparsi perché erano nello stato Islamico, e non più in Nigeria. Nel nuovo regno Islamico, affermavano i loro sequestratori, le donne sono rispettate… ma se si rifiutano di obbedire agli uomini in qualcosa, rischiano la morte.
Bambine e bambini non hanno scelta: non decidono di diventare kamikaze o di farsi esplodere una bomba nella pancia.
Sono soli, abbandonati dalle famiglie e dallo Stato, invisibili alle organizzazioni internazionali troppo lontane per trovarli e sostenerli.
Quand’anche le loro famiglie volessero ritrovarli, sarebbero abbandonate a se stesse a loro volta, non saprebbero da dove cominciare, o impiegherebbero così tanti anni che se ci riuscissero non li riconoscerebbero più.
Il terrorismo ha un nome e delle caratteristiche precise. Chi lo gestisce è una mente o più menti che sanno coordinare una guerra. I milioni di bambini di cui parliamo, abbandonati, senza un domani, che forse si svegliano ogni mattina senza la certezza di vedere la sera, sono un enorme bacino di potenziale reclutamento e sfruttamento da parte del terrorismo.
Ci sono numerosi report di organismi come lo Human RightsWatch che contengono indicazioni con cui i Governi potrebbero cercare di affrontare il problema …si scrivono sempre tante parole, ma alla fine cosa si fa concretamente?
Credo fermamente che l’accesso all’istruzione sia un fattore cruciale per cambiare la vita di questi bambini e sottrarli alla lunga mano dello sfruttamento del terrorismo e della morte. Gli sforzi internazionali dovrebbero andare in questa direzione, utilizzando anche le nuove tecnologie per ridurre l’isolamento e il senso di impotenza, far circolare le informazioni, rompere il cerchio della disinformazione, dell’oscurantismo e della paura.
Ma non solo i Governi e le grandi organizzazioni internazionali possono e devono fare qualcosa: ogni nostro gesto conta. Cambiare il mondo è anche non sprecare, perché la vecchia scatola di matite che sostituiamo ogni inizio d’anno scolastico con una nuova potrebbe ancora essere molto utile: un altro bambino potrebbe ricevere tra le mani, anziché un fucile, un mazzo colori per ridipingere la propria storia e quella dell’Umanità.