La Stampa – Origami – 15/01/2016 Vladimiro Zagrebelsky
Le questioni di genere riguardano il problema dell’eguaglianza, sono aperte a controversia e a soluzioni su cui è difficile un consenso unanime e permanente. La semplice formula che dice che tutti sono eguali davanti alla legge non è risolutiva, poiché il principio di eguaglianza richiede un trattamento eguale per coloro che sono eguali, ma anche necessariamente un trattamento diseguale per coloro che sono diversi. Se un trattamento diverso imposto a persone (o situazioni) che sono eguali è discriminatorio, altrettanto lo è un trattamento eguale riservato a persone (o situazioni) che sono diverse.
Ma poiché, almeno per qualche dettaglio personale, tutti siamo diversi dagli altri e tutte le situazioni si distinguono per qualche aspetto, il problema dell’eguaglianza rinvia alla ricerca delle differenze significative, rilevanti per giustificare un trattamento specifico e diverso. Che gli uomini e le donne siano diversi è indiscutibile. E tuttavia oggi non si accetta che per il solo fatto d’esser donna o uomo il trattamento possa essere diverso. Ma anche per un tema di eguaglianza oggi così essenziale, sono accettate e anzi rivendicate delle eccezioni, quando il fatto d’esser donna o uomo fa la differenza. Così le donne generalmente maturano il diritto d’andare in pensione prima degli uomini, senza che questa differenza di trattamento smentisca l’eguaglianza.
Il principio dell’eguaglianza di uomini e donne è relativamente recente in Occidente. Ma ora esso è inteso come elemento ineliminabile del rispetto della dignità di tutte le persone umane e costituisce un fondamentale tratto distintivo delle società che lo hanno elaborato e poi iscritto nelle loro Costituzioni e nelle Carte di diritti umani fondamentali. La sua negazione costituisce il radicale motivo di intransigente rifiuto di culture che affermano e praticano il principio opposto.
Il principio di eguaglianza e lo speculare divieto di discriminazione si riferiscono, per ciò che riguarda i temi di cui discutiamo, alla distinzione tra uomo e donna, ma anche a qualsiasi altro motivo di diverso trattamento. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, oltre che sul sesso, espressamente vieta discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale; nello stesso senso è la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani. Ecco allora che le questioni di genere impongono di rispondere ad alcune domande. L’unione – matrimoniale o di fatto – tra un uomo e una donna è eguale a quella tra persone dello stesso sesso? La ovvia risposta negativa, non chiude la questione, ma la apre a ciò che è più interessante e chiede quale sia la differenza e quali conseguenze se ne possano ragionevolmente trarre. Qual è l’elemento distintivo di una coppia di persone che insieme vivono una vita di famiglia? Cosa la distingue per esempio da una società commerciale o un’associazione culturale? Tutte sono «formazioni sociali» protette dalla Costituzione, ma non è difficile individuare lo specifico elemento qualificante in un sentimento e in un progetto che sono comuni a quelle che diciamo coniugali. Se è così, non conta la differenza esistente tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali, ma occorre tirare le conseguenze dell’elemento di eguaglianza che è pertinente e rilevante per riconoscere e regolare le unioni dell’uno e dell’altro genere. E per quanto riguarda i figli che le coppie omosessuali possono desiderare, come quelle eterosessuali, un atteggiamento razionale dovrebbe fondarsi su dati seri e non su emozioni o abitudini. La Corte europea dei diritti umani, trattando questioni relative alle adozioni, ha affermato che non esistono prove che dicano che una coppia omosessuale, per il solo fatto di essere tale, non possa svolgere i compiti dei genitori nell’interesse del figlio, come una coppia eterosessuale. Naturalmente in tutti i casi di istanze di adozione è essenziale che vi sia una procedura e un giudice per valutare l’idoneità specifica di chi chiede di adottare un bambino. Ma, provvedendo ancora una volta a ricondurre a ragione la legge italiana sulla procreazione medicalmente assistita che vietava la fecondazione eterologa, la Corte costituzionale rispetto alla determinazione di una coppia di avere un figlio ha usato un aggettivo forte, qualificandola come «incoercibile». Con quale diritto quell’aggettivo potrebbe esser limitato alle sole coppie eterosessuali?
Alle domande poste sopra, se ne aggiunge un’altra, preliminare ed essenziale in una società democratica. Temi controversi come quelli di cui trattiamo ora, sentiti come carichi di risvolti legati alle abitudini (cui facilmente si assegna l’etichetta di tradizione), all’etica e alle religioni, possono essere decisi in Parlamento imponendo divieti a colpi di maggioranza? O la legittima esistenza di opinioni ed etiche diverse e il diritto delle minoranze di essere rispettate, deve frenare il legislatore e far prevalere la libertà delle scelte dei singoli? Certo la legge può e talora deve porre limiti, ma occorrono forti ragioni per vietare ciò che non danneggia altri. La libertà è sempre accompagnata dalla responsabilità per l’uso che se ne fa. Invece che divieti posti dalla legge, sarebbe bello che i portatori delle diverse opzioni etiche e politiche confrontassero i loro argomenti sull’uso che ciascuno fa della sua libertà. L’inesistenza di un divieto, infatti, non implica l’esistenza di un obbligo ma apre il campo impegnativo della responsabilità individuale.