Un uomo violento rappresenta sé stesso e nessun altro. La sua violenza, invece, riguarda anche me. Scrivo queste parole con disagio, con imbarazzo, con vergogna. Ma non sposteremo avanti di un millimetro il discorso pubblico, se non saranno anche gli uomini a parlare – a parlare apertamente, responsabilmente – delle violenze che le donne subiscono. Trovare sui giornali, in rete, decaloghi rivolti alle ragazze sul “come difendersi” è penoso. È necessario sì, ma direi che soprattutto è penoso. L’idea stessa che una donna debba essere allenata a difendersi dalle attenzioni, dalle pressioni psicologiche, dal desiderio sessuale, dalle mani di un uomo, è penosa. Ma se questo è vero, se – in Italia, nel 2017 – è necessario, io non posso fingere che non mi riguardi.
Quelli che minimizzano (maschi, naturalmente) fanno notare che le violenze e i casi di stupro sono in calo. L’Italia è all’ultimo posto in Europa per il numero di violenze sessuali? Anche fosse, il discorso non cambierebbe di una virgola. A ogni modo, restiamo alle statistiche: da uno studio condotto su un campione di oltre 700 studenti delle scuole secondarie di secondo grado, risulta che più di una ragazza su dieci ha subito esperienze di violenza all’interno della coppia prima dei diciotto anni. Sedici intervistate su cento hanno parlato di violenze psicologiche e di «persistenti comportamenti di dominazione e controllo»; il 14 per cento dice di avere subito violenze o molestie sessuali.
«Quando si pensa alla violenza di genere, si è soliti immaginare coppie adulte, sposate o che convivono; in realtà, esperienze simili si possono verificare anche fra giovani e giovanissimi che stanno scoprendo le relazioni di coppia spesso per la prima volta», ha fatto notare la psicologa Lucia Beltramini, fra i partecipanti a un convegno sulla prevenzione della violenza di genere e sui percorsi di uscita, in programma a Rimini il 13 e il 14 ottobre. Buona occasione, forse, per mettere al centro del discorso i maschi giovani e giovanissimi.
Il discorso sulla violenza di genere è come bloccato in un frasario fisso. È bloccato nel paradosso per cui vittime e vittime potenziali si trovano sole due volte. Sole nel difendersi – sole come quando tornano a casa di notte e hanno addosso una paura che non dovrebbero avere, che non è giusto che abbiano. Sole nel racconto della violenza, della paura della violenza, del come difendersi dalla violenza. Gli uomini tacciono, imbarazzati. Conosco quell’imbarazzo, è anche mio. Che cosa posso dire? Che cosa posso aggiungere? Temo di essere inopportuno, retorico: il paladino di una falsa buona coscienza. Ma questo nostro silenzio imbarazzato – di noi uomini, voglio dire – rischia di diventare un alibi. Un alibi personale e collettivo. Una rinuncia (preventiva e rassicurante) a porre a me stesso, agli uomini che ho intorno – i padri, i fratelli, i figli – domande che non cancellano quell’imbarazzo, ma anzi lo intensificano, e in parte lo chiariscono.
Non hai mai alzato le mani su una donna, va bene. Non sei un violento. Ma quella volta che le hai urlato contro, più del normale? Stavamo litigando. Quando si litiga, si alza la voce. Sì, però forse hai esagerato. Sei stato violento con le parole. O hai preso a pugni il muro, la macchina, hai fatto volare un oggetto. E quella volta che hai insistito, che sei stato pressante, che non hai saputo contenere il tuo desiderio? Quella volta che hai esagerato, facevi il cretino con quella ragazza, ma sei andato oltre, con lo sguardo invadente, con le parole giocose e viscide? E quella volta che la gelosia ti ha annebbiato, ti ha preso alla gola, ti ha dettato le frasi possessive e ricattatorie di un “aut aut”?
È difficile, direi quasi impossibile, che un essere umano maschio non conosca e non abbia almeno sfiorato questa o quella forma di prepotenza. La spia di un radicatissimo sentimento gerarchico dei rapporti fra sessi. Una spinta a dominare, a controllare, a pensare una relazione in termini di possesso. Solo la cultura, l’educazione possono correggere, provare a correggere. Fondare, per chi cresce ora, basi diverse di “educazione sentimentale”. Suona retorico? Non vedo altra possibilità, e forse non c’è. Non è facile? No, non lo è. Ma esistono alternative? Ci preoccupiamo che le bambine crescano ribelli il giusto. Non ci preoccupiamo abbastanza di come crescono i bambini. E invece a loro dovremmo guardare, parlare. A loro dovremmo fare domande, provare con loro a costruire risposte.
Alla luce di un grande successo editoriale – Storie della buonanotte per bambine ribelli di Elena Favilli e Francesca Cavallo, tuttora in classifica – mi è capitato di suggerire a qualche editor la necessità di un libro parallelo, qualcosa come Storie del buongiorno per bambini gentili. Favilli&Cavallo presentano modelli come Serena Williams e Rita Levi Montalcini, come Frida Kahlo, Margherita Hack, Michelle Obama e Malala Yousafzai, la più giovane premiata con il Nobel per la pace. Niente da obiettare, se non su un piano stilistico: si poteva scrivere forse un po’ meglio. Un libro parallelo per bambini (e padri) quali figure potrebbe presentare? Ne troveremmo? Voglio sperare di sì. E comunque: allarghiamo il campo, non riduciamolo a un discorso interno ai generi. Se da un lato è fondamentale che una bambina sviluppi presto la coscienza, il sentimento della propria indipendenza, della dignità assoluta e intoccabile dei propri desideri, delle proprie ambizioni, della propria intelligenza, del proprio corpo, dall’altro lato non può esserci il vuoto. I bambini (maschi) dove sono? E i loro modelli (sbagliati da secoli)? L’effetto di quel vuoto si rende visibile quando è troppo tardi: quando la ragazza “ribelle” – pur allenata a essere tale – non è riuscita a difendersi.