Aborto, tra scelta e diritto

Femministerie    12 maggio 2018  Cecilia D’Elia

Quarant’anni sono una soglia: non ci sono più alibi, si è decisamente nell’età adulta. E tali sono dunque quelle leggi che quest’anno entrano negli “anta”. Due in particolare videro la luce nel maggio del 1978, la legge 180, in tema di “accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, e la legge 194 sulla “tutela della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza”. La prima, che fu poi compresa nel testo istitutivo del servizio sanitario nazionale approvato a fine anno, ha posto fine a secoli di abusi e ha promosso una nuova idea di salute e di dignità della persona malata di mente. La seconda ha reso legale, entro certe condizioni, interrompere una gravidanza quando questa leda il diritto alla salute psicofisica della donna. A lei, dopo una pausa di riflessione di sette giorni, spetta la decisione su tale scelta. In entrambi i casi, nel nome del diritto alla salute, vengono meno forme di controllo statale prima in essere. Perché tale era, per esempio, quello che veniva esercitato sul corpo femminile e sulla sua capacità generativa: abortire o costringere una donna ad abortire era all’epoca un reato contro l’integrità e la sanità della stirpe, le cui pene venivano ridotte dalla metà ai due terzi se l’aborto, su donna consenziente o meno, veniva procurato per “causa di onore” (ricordiamo che il delitto d’onore sarà abolito solo nel 1981).

Entrambe queste leggi, la 180 e la 194, furono approvate grazie a movimenti politici, culturali e sociali che avevano attraversato il nostro paese, e non solo. Per entrambe l’applicazione è stato un percorso difficile e pieno di ostacoli. Anche per questo alcuni faticano ancora a vederle come riforme adulte, che hanno già abbondantemente dimostrato la loro efficacia. Lo dimostra il dibattito sempre aperto, sia nella società che nel femminismo, sulla 194.

L’iter parlamentare che portò alla sua approvazione fu determinato dall’iniziativa radicale di referendum sulle norme del codice Rocco, di cui abbiamo detto, ma fu accompagnato, seguito, incalzato anche da tanta parte del femminismo, che sull’esperienza dell’aborto stava facendo un lavoro di scavo e di autocoscienza. E’ grazie a questa vera e propria lotta politica che il principio dell’autodeterminazione della donna, il riconoscimento che spetti a lei la scelta di interrompere o meno la gravidanza, è diventato un contenuto della legge.

Spesso l’immagine del femminismo negli anni 70 viene schiacciata sulle manifestazioni per l’aborto libero, gratuito assistito. Eppure sono solo una parte del lavoro politico che il femminismo fece sull’aborto. E sicuramente non rappresentano la varietà di posizioni che da sempre vivono all’interno del femminismo, movimento plurale e variegato.

Ci sono due aspetti che mi preme sottolineare:

  • il cuore della riflessione femminista sull’aborto allora come oggi è la sessualità femminile, la maternità come scelta, il principio di autodeterminazione. La domanda sul perché si rimane incinta interroga la sessualità maschile, la nostra autonomia, ma, noi cresciute con la contraccezione, sappiamo bene che riguarda anche le ambivalenze nostre e dei nostri desideri;
  • quando negli anni 60 e 70 del secolo scorso le donne hanno rivendicato di decidere sul proprio corpo non solo si sono scontrate con le resistenze di un sistema che le aveva tenute in uno stato di minorità, ma hanno anche dovuto fare i conti con un’idea di autonomia, di diritto, di libertà tagliata a misura di un individuo presunto libero e autosufficiente. Individuo che il femminismo ha criticato e di cui ha contestato linguaggi, codici e regole. Nel caso della gravidanza è quell’idea dell’individuo che oppone diritti della gestante a quelli del nascituro come fossero indipendenti, separati/separabili.

Per entrambi questi motivi nella riflessione e nella politica femminista l’aborto non è mai stato riducibile a un semplice diritto individuale. Anzi, sul piano giuridico la gran parte del femminismo ha piuttosto preferito parlare di depenalizzazione. La legge fu una mediazione, che io penso abbia funzionato, ben oltre la lettera delle norme della 194. Il punto in Italia è il boicottaggio della sua applicazione e lo stigma che ancora incontrano le donne che ricorrono all’ivg in un sistema sanitario con tassi di obiezione così diffusi. Per non parlare dell’impoverimento della rete dei consultori o delle resistenze all’aborto farmacologico.

Detto ciò, penso che un conto sia riconoscere l’irriducibilità dell’aborto a uno strumento giuridico individuale, altro liquidare il problema delle norme negando che sia un diritto soggettivo. Per questo non mi convince l’intervista di Luisa Muraro a L’avvenire, quando sostiene che non è un diritto perché un diritto ha sempre un contenuto positivo, che l’aborto non avrebbe. Chiaramente non parliamo del carattere positivo o meno dell’esperienza, che non è neanche da discutere, ma del contenuto del diritto soggettivo. In riferimento al bene tutelato dall’ordinamento giuridico, credo che il contenuto positivo, riconosciuto dalla 194, sia la possibilità di esercitare una scelta, su di sé, la propria vita, il proprio corpo. Certo una scelta di rifiuto, e dunque a suo modo una scelta tragica, ma comunque una scelta. Ed è questo il motivo per cui non penso, come sostiene Muraro, che all’Onu abbiano vinto i radicali (che comunque non reputo i miei avversari), e con loro un’idea illimitata di libertà sul proprio corpo e dell’aborto come diritto. Sarà anche scivoloso e fuorviante affrontare la questione in termini diritti soggettivi individuali. Come abbiamo detto non corrisponde all’elaborazione delle donne sull’aborto e la sessualità. Penso però che i diritti sessuali e riproduttivi come diritti umani, così come riconosciuti dalle istituzioni internazionali, nella realtà aprano spazi di autonomia, esattamente come fece la 194: esprimono la possibilità di accedere alla contraccezione, di interrompere una gravidanza non desiderata, si scontrano con contesti e situazioni in cui vigono ancora divieti,  consentono l’esercizio della libertà e della responsabilità femminile nella scelta.

E poi, nel linguaggio comune dire che qualcosa non è un diritto significa dire che non è cosa che puoi decidere tu: quello che vorrebbero tanti avversari dell’autodeterminazione femminile.

 

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