Agnese Pini, 34 anni, direttrice La prima donna a firmare la «Nazione»

Corriere della sera La 27 ora 5 agosto 2019 – Irene Soave

«Ci ho messo quasi mezz’ora, entrata in ufficio, a sentire che potevo sedermi su quella poltrona: quella da direttore della Nazione. L’ho guardata un po’ dal divano, poi dalle due sedie di fronte, quelle dove per molto più tempo mi sono seduta mentre il direttore guardava le pagine che gli portavo. Ho spostato cose, fatto telefonate in piedi. Poi mi sono seduta». È un sentimento femminile, racconta la neo-direttrice Agnese Pini, classe 1985, prima direttrice donna in 160 anni di storia del quotidiano nato a Firenze: «l’idea di chiedersi se ce la faremo, la previdenza, l’idea che con una cosa bella ti arrivano responsabilità, che devi esserne all’altezza. Siamo più pratiche, sappiamo che un ruolo non è una medaglia vuota. Lo devi riempire. I maschi sono più…» Arroganti? «Abituati».

Sei anche molto giovane (tra giornalisti vige l’uso di darsi del tu, ndr). 
«Sì, e di una generazione, i nati negli anni ‘80, a cui è stato ripetuto sempre come un mantra che non ci saremmo mai collocati. Che la pacchia era finita, che non avremmo mai trovato lavoro. Il risultato è che abbiamo ottimi lavori. Ci siamo dati da fare, siamo concreti, non sbruffoni, sappiamo cento lingue, ci siamo laureati in tempo, non abbiamo rifiutato incarichi nemmeno umili. Nel 2009 mi sono iscritta a una scuola di giornalismo, la Walter Tobagi, di Milano: avevo 29 compagni come me, e tutti pensavamo, in fondo, di stare compiendo anche un azzardo a puntare tanto su un lavoro che sembrava così irraggiungibile. Oggi penso a quei mesi, ai sacrifici e alla tigna che abbiamo avuto da praticanti e poi da stagisti; alle occasioni avute e penso tutte colte; ai successi che poi sono arrivati. E sono fiera di noi, sono fiera della mia generazione».

Tutte le voci che sembrano in grado di mettere in discussione il potere — Greta Thunberg, Carola Rackete, la diciassettenne Olga Misik che legge la costituzione russa contro Putin — ultimamente sono voci femminili e giovani. Secondo te perché?
«Io ho un po’ paura dei simboli, perché poi invece quando tu lo abiti, il simbolo, il ruolo, lo devi riempire. Io prima che un direttore donna o un direttore giovane devo essere un buon direttore. È un lavoro, non solo una quota. Detto questo, donne e giovani sono sempre stati portatori di un anti-potere. Solo che ora abbiamo spazio, la società ci ascolta, non veniamo repressi. Il punto non è che ora ci ribelliamo. Il punto è che ora la società ci riconosce. Penso ai miei genitori, ai genitori delle mie amiche: siamo nate negli anni ‘80, e mai a nessuna di noi, o forse proprio a pochissime, è stata inculcata la nozione di dovere ambire a qualcosa di meno dei nostri fratelli maschi. Dico a scuola, all’università, fra gli amici, a casa. Sul lavoro è diverso».

Sul lavoro che succede? 
«Che l’età media è ben sopra i 45 anni, e in genere nei posti di potere ci sono ancora i maschi. E quello sì è un mondo che sta cambiando, ma con molta lentezza. Prendi i giornali: non sai quanto affetto, quanta gioia ho sentito attorno a me per il fatto che sono un direttore donna. Perché? I giornali sono pieni di donne. Nella tua redazione quante siete? Nella mia tantissime. Forse più di metà. Però poi un osservatorio l’anno scorso ha fatto il conto delle firme, in prima e dentro, e i giornali che ne ospitano di più hanno più o meno questa ratio: 25-33% firme femminili, il resto tutti maschi. E ci sono le riserve indiane: il privato, la scuola, le soft news, le fanno le femmine. Le cose “da grandi” le fanno i maschi. Come in letteratura: c’è la “scrittura al femminile” e poi c’è il canone».

Una donna che avanza nel mondo, che fa carriera, è spesso soggetta a battute o pettegolezzi tutti dello stesso segno: ha un mentore, è l’amante di qualcuno, ha un protettore, chissà che gli dà in cambio…
«Ma chiunque fa carriera si tira dietro una quantità di chiacchiere: di un uomo che fa carriera si dice che è un leccaculo, un massone, uno di sagrestia, un mafioso, chissà che favori ha fatto, chissà che brache ha calato. Ci si risparmia le noterelle piccanti, ok, ma il resto è uguale. Di vero c’è che un potere maschile è più rispettato. A una donna potente si pensa sempre di dover dare meno credito, e sono le donne stesse a darne di più agli uomini. Come si dice, il sessismo è una malattia dei maschi, ma trasmessa dalle femmine. Però, anche qui: non è che quintessenzialmente, geneticamente, noi siamo più stronze, più “incapaci di fare squadra”, come vorrebbe il cliché. È che siamo storicamente più deboli, e fare squadra è più facile al vertice che alla base; è più facile spartirsi il potere che l’oppressione».

Dicevi: devo essere un buon direttore. Cosa vuol dire dirigere bene un giornale, in questi tempi di crisi perenne? 
«Ora, io non penso che non abbiamo lettori. Penso che la gente si informi e si voglia informare più di prima, che la mitologia del popolo lettore dei decenni passati rispetto all’analfabetismo di ritorno odierno sia, appunto, una mitologia. Tutto sta magari a modernizzare il mezzo, ma dire che internet nuoccia alla stampa è come dire che la fine del vinile ha ucciso la musica. Noi giornalisti facciamo da almeno vent’anni questa continua messa cantata a morto, la gente non ci legge più, non siamo più rilevanti, come faremo. E però la facciamo dalle redazioni, da cui per fortuna continuiamo a informare la gente, a essere letti, a essere rilevanti. Io ci credo nei giornali. E credo anche in chi li legge».

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