Tutti stanno a casa. Le donne, invece, ci rimangono

Huffinghton Post 17 aprile 2020 Alessandra Serra

Nelle distopie apocalittiche l’umanità solitamente passa in tempi rapidi da uno stato culturale avanzato alla più totale barbarie. Per fortuna, la pandemia ci sta risparmiando derive così estreme ma è innegabile che si intravedano tratti di recessione anche sul piano sociale e culturale. Solo che, a meno che non siano direttamente connessi al tema dell’isolamento domestico, non suscitano molto interesse. È il caso della esigua presenza femminile nelle cabine di regia che, per conto del governo e delle istituzioni regionali, si occuperanno della gestione della crisi nazionale.

In pochi hanno sollevato il problema che un numero risicatissimo di esperte vi abbiano avuto accesso. Certo, sarebbe fuori luogo rivendicare uno stretto criterio di gender balance in una situazione drammatica come quella che stiamo vivendo, ma non si può negare una certa amarezza nel vedere una pagina di storia italiana scritta praticamente da soli uomini.

Nulla di straordinario, intendiamoci, viviamo un’epoca di stentata affermazione dei diritti di genere, dove si dichiara il principio delle pari opportunità ma di fatto si attua una prassi quotidiana che su questo fronte arranca malamente. Non c’è ombra di parità sul lavoro, nella gestione dei carichi familiari e domestici, ma troppo spesso neanche c’è fiducia da parte delle stesse donne nella propria autorevolezza, nelle proprie capacità. C’è, invece, il duro lavoro di sgobbo nelle retrovie, le ore infinite passate in una corsia di ospedale, le nottate in laboratorio, le settimane a smazzare quantità infinite di dati e poi, al momento di incassare i risultati, ci si ritira in buon ordine.

Poco efficaci appaiono alcuni presunti rimedi, come la creazione di task-force “ombra” tutte al femminile che dovrebbero fungere da contrappeso all’esclusione subita: non hanno senso gruppi di intervento su temi trasversali come quello della emergenza Covid che siano di esclusiva pertinenza maschile o femminile.

Così come appare incomprensibile, per non dire controproducente, la battaglia di retroguardia in cui si sostiene che le nazioni con leader femminili starebbero affrontando meglio la pandemia. Dire che si sconfigge meglio il virus con le donne a capo del governo è una solenne sciocchezza.

Più probabile il fatto che i paesi dove una leadership femminile non è un tabù siano luoghi dove la gestione del potere è a tutti i livelli più equilibrata e traggano quindi vantaggio dal contributo di tutti. Più che un tentativo serio di emancipazione, questa equazione appare come un maldestro tentativo di accomunare forzatamente governatrici nazionali del tutto disomogenee tra di loro – per storia, per orientamento ideologico, per strategie dell’emergenza, per caratteristiche dello stato che guidano.   

Del resto, la pretesa sgangherata di superiorità del genere femminile è una dichiarazione indiretta di subalternità e di immaturità che liquida decenni di faticosa e paziente battaglia a sostegno del principio di diversità nell’uguaglianza. Va in poche parole a farsi benedire il lascito di decenni di femminismo: cioè che la parità di genere non si conquista con un approccio competitivo ma, prima di tutto, con la consapevolezza che l’unica strada per l’emancipazione è evitare di rinchiudersi nel pregiudizio: quello di rivendicare una superiorità in forza del proprio genere sessuale lo è. È lo stesso che la visione patriarcale ha inflitto alle donne ed è perciò altrettanto irricevibile.

Va quindi respinto come un asset tossico, frutto dell’ennesimo periodo buio della storia in cui la casa rischia di trasformarsi in caverna e le donne, tanto per cambiare, anziché a come uscirne pensano a come arredarla meglio. Si rischia di sottoscrivere un perenne #iorestoacasa, accontentandosi dell’album con le figurine di quelle poche ce l’hanno fatta e degli incoraggiamenti paternalisti di chi ti dice che “le donne hanno una marcia in più”. Serve a poco se a casa già ci stai, e ci rimani.

Articolo Huffinghton Post

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