In.Genere 29 maggio 2020 Tiziana Ragni
Dallo sport alla politica, la presenza delle donne è “un valore sociale e personale irrinunciabile” per Luisa Rizzitelli, tra le selezionate da Forbes Italia per il 2020. Il rischio è di “restare fuori dal futuro”
Qualcuno potrebbe mai ipotizzare che Valentino Rossi scenda in pista per pochi spicci e senza nessun tipo di tutela? O che a queste condizioni abbia giocato per tutta la sua carriera Francesco Totti? Eppure è quello che accade quotidianamente a tutte le atlete italiane: a nessuna di loro è mai stato ancora riconosciuto lo status di professionista. Parliamo di campionesse pluripremiate che però restano dilettanti giuridicamente, orgoglio nazionale sul podio ma cenerentole nelle tutele. A parità di trofei gli uomini firmano contratti con retribuzioni e garanzie di serie A e le donne, come le stelle, stanno a guardare.
Un cambio di rotta è avvenuto solo da poco, riconoscendo alle atlete almeno le tutele legate alla maternità. Un risultato arrivato dopo venti anni di battaglie e di tenacia di una donna inserita tra le 100 di successo selezionate da Forbes Italia per il 2020. E no, non se lo aspettava, Luisa Garribba Rizzitelli, di poter finire in quell’elenco, lei che lo sport lo ha vissuto per quindici anni come pallavolista “professionista di fatto” e ha poi proseguito come maratoneta dei diritti da conquistare o riacquisire. Nel 2000 ha fondato Assist, Associazione Nazionale Atlete, la cui missione – che spesso si rivela davvero impossibile – è la difesa dei diritti delle atlete agoniste. Imprenditrice dall’età di 21 anni, premio Marisa Bellisario nel 2003, Luisa Rizzitelli ha un palmares da podio e un carattere come il suo fisico: granitico e indomito.
Luisa, almeno un assist è andato in rete, dopo tanti anni di melina.
La maternità alle atlete è solo un primo, piccolo e tardivo atto riparatore di una situazione gravissima: il vero passo avanti non sta nei mille euro al mese per dieci mesi ma nel fatto che per la prima volta lo stato riconosce che le atlete sono lavoratrici. È normale che questo avvenga per la prima volta nel 2020?
E quale deve essere, il prossimo obiettivo?
Deve essere riscrivere la Legge 91 del 1981 sul professionismo sportivo. In questo momento le uniche discipline professionistiche individuate come tali sono solo quattro e solo maschili. Semplificando il concetto: a oggi alle atlete italiane non è permesso l’accesso a una legge dello stato. È incostituzionale, oltre che offensivo.
Di cosa parliamo, quando parliamo di discriminazioni nello sport?
Per esempio di Manu’ Benelli che quattro anni fa denunciò di aver dovuto firmare un contratto omofobo. Oppure di Eva che non solo si salva a sue spese da una difficile malattia che la toglie dai campi di serie A di pallavolo, ma poi diventa anche capitana della Nazionale di Sitting Volley e andrà ai giochi olimpici sì, quando si svolgeranno, ma utilizzando le proprie ferie dal lavoro. Parliamo del Setterosa, le pallanuotiste cui davano la metà dei premi che riconoscevano agli uomini e che con noi nel 2001 scatenarono l’inferno cambiando la storia e pagandone le conseguenze per il bene di tutte.
Da qualche anno ti dedichi anche a un lavoro di formazione aziendale contro stereotipi e sessismo che porti avanti con un progetto chiamato Better place. Cosa comporta il gender gap nella gestione di un’azienda?
Gender gap vuol dire disparità salariale, vuol dire precludere alle donne professioni o ruoli apicali per preconcetto o abitudine, vuol dire una organizzazione del lavoro che non tiene conto dello squilibrio della distribuzione del lavoro di cura. C’è poi il fattore economico: la presenza di donne nei board aumenta la redditività. Nel 2018 anche uno studio della Consob ha dimostrato l’effetto positivo dell’introduzione della legge sulle quote antidiscriminatorie di genere. Ma soprattutto rischiamo di essere fuori dal futuro: il mondo sta cambiando e per le nuove generazioni fattori come responsabilità sociale ed equo trattamento valgono più della parte economica. Chi decide di porli alla base del proprio operato ottiene una maggiore fidelizzazione dei dipendenti e performance migliori. Lo stiamo toccando con mano nelle aziende in cui stiamo facendo formazione con Better Place: i commenti spontanei e i feedback che le direzioni stanno ricevendo sono estremamente positivi, perché i dipendenti percepiscono un interesse reale verso la forza lavoro e comprendono come la formazione sul gender balance non sia volta solo alla massimizzazione dei profitti, ma ad un valore sociale e personale al quale non possiamo più rinunciare.
L’ostinata esclusione delle donne dai ruoli e dai luoghi decisionali trova una plastica rappresentazione negli elenchi delle innumerevoli task force messe a punto per la ricostruzione post Covid-19. Che strategia è quella di non coinvolgere più di metà del paese?
Immaginare una fase2 senza le donne non è solo un assurdo storico ma è anche un pericolo. Siamo già entrate come parte debole, nell’emergenza Covid, e ne usciremo ancora peggio, schiacciate dal lavoro di accudimento da conciliare con il piano professionale. Ma la barca sulla quale siamo è una sola: o si salva o non si salva. Non ci salveremo per categorie o per generi. Se pensano di avviare la ripresa privando le donne del diritto costituzionale al lavoro, alla rappresentanza e alla parità, non si andrà incontro solo al disastro economico ma anche a quello sociale e otterremo un paese incattivito e ancora più malato. Sarà un guaio per tutti. Proprio come un virus.
Pochi giorni fa, mentre le task force maschili facevano la cernita degli “affetti stabili”, due scienziate, Ilaria Capua e Fabiola Gianotti annunciavano il progetto coordinato dal Cern per lo studio dei dati su cause ed effetti del virus sul pianeta. Uno spot migliore in favore delle competenze femminili era difficile immaginarlo. Eppure ci si ostina a farne a meno. È un lusso che possiamo permetterci?
Non sono le competenze delle donne, a mancare: è la voglia degli uomini di rinunciare alle rendite di posizione. E basta con la litania de “le donne non si trovano”, “le donne non possono”: sono gli uomini che non hanno interesse a coinvolgerle. È stato creato anche un sito, 100esperte.it, per togliere scuse a chi non sa o non vuole cercarle. Mi ha inorridita un sondaggio Ipsos con i raffronti tra Italia e Danimarca sulla percezione del lavoro delle donne, in casa e fuori. Ne viene fuori una cultura misogina radicata e piena di stereotipi ma soprattutto una fragilità aggravata dalla pandemia che rischia di riportarci indietro di decenni, con donne sole a occuparsi sia del lavoro di cura che di quello professionale con in più, ora, anche la responsabilità educativa dei minori, perché le scuole chiuse senza politiche per le famiglie, diciamocelo, sono un altro peso scaricato prevalentemente sulle spalle delle donne.
Molte di quelle affermazioni sono usate anche come alibi per l’esclusione: le donne non ci sono, le donne preferiscono restare a casa, le donne sono più portate per altro. E questo non è un problema che riguarda la parità di genere ma la democrazia. O no?
Infatti, tutte bugie. Non è vero che “sono loro che preferiscono dedicarsi di più alla famiglia”: è che non hanno alternative e che questo lavoro viene imposto culturalmente, alle donne. Vanno modificate le norme sociali: la ricostruzione post emergenza Covid potrebbe essere l’occasione giusta per correre ai ripari. E questo non va fatto solo per colmare un vergognoso divario di genere, ma anche perché conviene: il pieno accesso delle donne al lavoro e ai ruoli decisionali produce più ricchezza e benessere per tutti. Non lo dico io da femminista e testarda: lo dicono i numeri, gli economisti e le economiste, ogni proiezione a riguardo. Se invece qualcuno pensa che le famiglie possano rinunciare allo stipendio materno o che le donne debbano tornare a fare le babysitter-colf-badanti gratis nel nome del maschilismo di stato, e beh si sta sbagliando di grosso. E si vota alla sconfitta certa.
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