Aborto farmacologico, le Regioni che dicono no a day hospital e pillola Ru486 nei consultori

Corriere della sera – La 27 ora – 7 ottobre 2020 Giusi Fasano

Ogni volta che scompare dalla scena pubblica qualcuno trova il modo di rimetterlo sotto i riflettori. Parliamo di un argomento controverso da sempre: l’aborto. Parliamo di decisioni sul tema che aprono all’istante interpretazioni opposte e battaglie politiche da anni Settanta.

Mentre è ancora in corso la «disobbedienza» della Regione Piemonte sulle linee guida del Ministero della Salute; mentre da Roma una ginecologa denuncia: nel Lazio troppi primari dalle università cattoliche e l’aborto terapeutico è impossibile a Rieti, Frosinone, Latina e Viterbo; mentre è ancora accesa la polemica sui feti seppelliti al cimitero Flaminio di Roma con il nome delle madri sulle croci, ecco che si fa largo un nuovo caso. Arriva dal comune di Iseo (Brescia), dove l’amministrazione ha approvato una mozione che prevede di versare un contributo mensile alle donne che rinunciano all’interruzione volontaria di gravidanza. Inevitabili le contestazioni. Nelle ultime ore sono stati esponenti nazionali dei Verdi ad annunciare che «ci batteremo contro questo provvedimento», a chiedere al ministro della Salute Roberto Speranza di «garantire la piena applicazione della legge 194» e a definire «di una gravità inaudita» la decisione del Comune «di destinare fondi pubblici a favore di associazioni private che operano per contrastare una legge dello Stato».

La legge dello Stato — per chiarire — è sempre quella: la 194 del 1978 che consente alle donne di abortire in sicurezza e ne regola le modalità. Non è un segreto che non sia mai stata apprezzata dal centrodestra del Paese, che però oggi governa più regioni e Comuni di sempre. Dunque era perfino prevedibile che qualcuno fra i governatori avrebbe prima o poi riaperto il confronto sul tema.

Lo ha fatto per prima Donatella Tesei, governatrice leghista dell’Umbria. A giugno ha deciso che non sarebbe stato più concesso in day hospital l’aborto farmacologico, cioè la pillola abortiva RU486. Soltanto in ospedale, in «regime di ricovero ordinario», come del resto consigliavano (con tre giorni di ricovero) le direttive approvate dal Ministero della Salute dieci anni fa. Da Roma, però, in questi dieci anni avevano sempre lasciato che fossero le regioni a scegliere fra la somministrazione ambulatoriale e il ricovero della donna. E la scelta era stata praticamente sempre per la pillola ambulatoriale.

Decidendo il contrario la presidente Tesei ha sparigliato le carte e ha costretto così il ministro Speranza ad aggiornare le linee guida sull’aborto farmacologico. Dopo le donne in piazza e le proteste della società civile e le reazioni politiche sul caso Umbria, Speranza ha prima chiesto un parere all’Istituto superiore di sanità e alla fine ha annunciato l’aggiornamento delle direttive: non sarà obbligatorio essere ricoverate per le donne che vorranno interrompere la gravidanza con la Ru486. Potranno farlo in day hospital prendendo la pillola fino alla nona settimana di gravidanza (prima erano sette). «È un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese» ha scritto in un post su Facebook lo stesso ministro. E la governatrice ha fatto sapere: «Pronti ad adeguarci alle nuove linee guida».

Caso chiuso e fine delle discussioni sull’aborto, verrebbe da pensare. E invece no. L’argomento riesplode pochi giorni fa con la regione Piemonte. Il governatore Alberto Cirio (Forza Italia) ignora le linee guida di Speranza e — in attesa di un parere chiesto all’avvocatura regionale — stabilisce di non adottarle e decide che sul territorio piemontese l’aborto farmacologico non potrà più essere materia di ambulatori e consultori ma sarà possibile soltanto in ospedale, dove il medico e la direzione sanitaria valuteranno i singoli casi decidendo di volta in volta se eseguirlo in day hospital o con un ricovero di tre giorni. «Fatevi coraggio e rivendicate la competenza regionale in un tema come questo» è l’invito alle altre regioni dell’assessore agli affari legali di Fratelli d’Italia, Maurizio Marrone. «La Ru486 non è un farmaco da banco, la decisione della giunta piemontese è condivisibile e può aprire la strada ad altre regioni» spera il capogruppo di Forza Italia alla Camera Mariastella Gelmini, mentre la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni parla di «scelta coraggiosa».

Inutile dire che ancora una volta sono scoppiate mille proteste. Centri antiviolenza, associazioni di aiuto alla donna, politici di centrosinistra, il ginecologo torinese Silvio Viale: tutti contro la giunta Cirio. All’assessore Marrone, Viale dice «si informi, invece di comportarsi da conservatore antiabortista». Il M5S valuta il ricorso al Tar e la senatrice Pd Anna Rossomando aggiunge che «la circolare prevede anche la presenza di sportelli di associazioni pro vita negli ospedali. Quale sia la funzione di questi sportelli risulta incomprensibile e sembra più che altro una bandiera politica voluta dall’assessore Marrone. Ci batteremo per la modifica dell’atto della Regione Piemonte». È la bagarre.

Tutto questo mentre a Roma la dottoressa Silvana Agatone, 40 anni di servizio, denuncia in un’intervista a Repubblica l’avanzata, in Lazio, dei primari cattolici e degli antiabortisti. «Gli ospedali religiosi fanno la diagnosi prenatale — dice — ed è un problema perché nei centri dove si fanno ecografie per capire se il feto è malformato ci sono solo obiettori e quindi anche se il feto è malformato dicono alla donna che il feto guarirà…». Ultimo appunto: i legali dell’associazione Differenza Donna hanno presentato un esposto in procura per denunciare le tombe dei feti con i nomi delle donne al cimitero Flaminio. Ai pm il compito di individuare eventuali reati penali.

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