Riproponiamo un articolo dell’8 luglio 2020, comparso su The Vision, che ci sembra attuale in questo contesto storico di Federica Passarella
Siamo abituati a pensare alle donne come assenti dalle guerre. Sebbene poche nazioni prevedano per loro la leva obbligatoria, e siano generalmente lontane dalle linee di combattimento, nella gran parte dei casi subiscono comunque tutto il peso dei conflitti, diventando in molti casi vittime di stupri, violenze e torture, deportazioni e massacri, oltre che della povertà che porta con sé ogni conflitto. Le donne e i bambini, così come gli anziani, sono i primi testimoni della distruzione di case e intere città. Ma sono state proprio le donne ad aver mandato avanti i Paesi mentre gli uomini erano al fronte e a risollevarli una volta che il conflitto era terminato.
Le palestinesi, da questo punto di vista, possono essere considerate come parte di una genealogia di donne in lotta. Dato che si sente spesso parlare della condizione di subalternità in cui vivono le donne nei Paesi islamici, molti ignorano che in Palestina hanno cominciato a rivendicare libertà e diritti molto tempo fa, spinte in larga misura dallo stato di assedio dell’occupazione israeliana. Da quando, con la complicità della comunità internazionale, la Palestina è stata occupata dai sionisti, è infatti diventata una sorta di prigione a cielo aperto i cui confini sono controllati militarmente da Israele. Lo stato di oppressione costante in cui la popolazione è costretta a vivere da decenni impedisce l’evolversi dei più basilari diritti civili e ciò si ripercuote sul cammino verso l’emancipazione delle donne, che è profondamente ostacolato.