“LECCO, RACCONTO TOSSICO. L’ODG INTERVENGA”

Stampa Romana 29 giugno 2020

“Il dramma dei papà separati”.

A causare la tragedia la difficile separazione tra il padre e la madre

Padre uccide i due figli, era sconvolto dalla separazione”.

Questi titoli danno un chiaro quadro di cosa significhi rivittimizzare mediaticamente una donna che ha perso due figli, colpevolizzandola di un duplice omicidio agito da un padre che per vendetta ha attuato un piano violento nei suoi confronti infierendo sui due bambini: una prassi sempre più frequente che rientra nel femmincidio, che può anche “culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambini” (Marcela Lagarde).

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Quella sentenza che violenta tutte le donne

Corriere della sera – La 27 ora – 31 maggio 2020 Cristina Obber

16 anni per averla sgozzata, per averne occultato il corpo in una fossa di liquami, corpo ritrovato dopo venti giorni in avanzato stato di putrefazione, pieno di larve e vermi, riconoscibile soltanto da un piccolo tatuaggio e dei braccialetti. Si chiude così la sentenza di primo grado nel processo a Fabrizio Pasini, 50 anni, che nel luglio 2018 ha ucciso Manuela Bailo, la collega 35enne con cui da tre anni aveva una relazione extra coniugale. È stato concesso il rito abbreviato, inapplicabile per i femminicidi commessi dopo l’entrata in vigore della legge 19/2019, che ha comportato uno sconto di pena di 8 anni dai 24 di partenza. Torna in mente un’altra sentenza, del 2013, sempre a Brescia, che ha condannato Claudio Grigoletto a 30 anni per il femminicidio della sua segretaria e amante Marilia Rodrigues Martins, incinta di 4 mesi.

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Zinaida è qualunque donna, ovunque, in qualsiasi momento

Questo post è di Lorenzo Tosa. Lo pubblichiamo perchè raramente si incontra un uomo che scrive questa sensibilità ed empatia. Grazie!

Era appena rientrata alle 4 del mattino dall’ennesimo turno massacrante in ristorante. Ha parcheggiato l’auto in strada, aperto il cancello del cortile e, di fronte, si è trovata lui, il marito. E due coltellate al petto che le sono state fatali.

Se n’è andata così, a 36 anni, Zinaida, caduta stanotte sotto i colpi di una tragedia che abbiamo visto, letto e ricostruito decine, centinaia di volte, sempre identica: un uomo, un coltello, l’abisso del possesso, l’ineluttabilità di un destino che qualcuno ha scritto per te e da cui nessuno ti ha protetto. Non le è bastato neppure rifugiarsi da qualche giorno a casa della sorella a Cologno al Serio (provincia di Bergamo), insieme ai tre figli, per fuggire a discussioni che erano diventate sempre più violente e definitive.

Ma non leggerete questa storia in nessun post indignato, non la ascolterete in nessuna diretta Facebook. Perché Zinaida è d’origine moldava e il suo assassino italiano. Perché questa storia non porta voti, ma solo un dolore infinito.

Zinaida è l’ennesima vittima di una strage silenziosa che ci rifiutiamo di vedere, capire, riconoscere.
Zinaida è vittima di una società che finge di difendere le donne solo se sono italiane e il suo aguzzino straniero, meglio se migrante e clandestino. Di uno Stato che considera i diritti e la sicurezza delle donne un tema marginale e non è mai stato in grado di fare una grande e seria legge sul femminicidio.
Zinaida è qualunque donna, ovunque, in qualsiasi momento. E noi le stiamo lasciando sole. Scusateci.

Lui l’amava l’amava l’amava… e così l’ha ammazzata

GIULIA giornaliste 8 settembre 2019 

Quasi tutti i media raccontando il femminicidio di Piacenza hanno dato sfogo a una informazione superficiale, zeppa di stereotipi. Eppure in tanti – anche direttori – hanno firmato il Manifesto di Venezia  

“L’amava, ma lei l’aveva respinto”. “Un gigante buono incapace di fare del male”. “Voleva tornare con lei, ma la donna aveva deciso di chiudere il rapporto”. “Un raptus per troppo amore”.

L’elenco delle parole sbagliate per raccontare la violenza sulle donne si arricchisce, ad ogni femminicidio, di nuove giustificazioni per il colpevole e di nuove coltellate alla vittima.Che scompare, non solo fisicamente: è una figura marginale nella ricostruzione, verso di lei non c’è rispetto, al massimo attenzione morbosa.

L’ultimo caso, a Piacenza, nei titoli e nei contenuti, sui giornali, ma anche in televisione, in radio e sul web, inorridisce, per la superficialità, il racconto concentrato sull’uomo, e sui complici, quasi si cercasse una spiegazione per riabilitarli.

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