CENTODIECI. L’Italia rincorre primati: sono centodieci, dall’inizio di questo 2012, le donne morte per mano di uomo. Una di queste si chiamava Vanessa, 20 anni, siciliana, strangolata e ritrovata sotto il ponte di una strada statale. I nomi, l’età, le città cambiano, le storie invece si ripetono: sono gli uomini più vicini alle donne a ucciderle. Le notizie li segnalano come omicidi passionali, storie di raptus, amori sbagliati, gelosia. La cronaca li riduce a trafiletti marginali e il linguaggio le uccide due volte cancellando, con le parole, la responsabilità. E’ ora invece di dire basta e chiamare le cose con il loro nome, di registrare, riconoscere e misurarsi con l’orrore di bambine, ragazze, donne uccise nell’indifferenza. Queste violenze sono crimini, omicidi, anzi FEMMINICIDI. E’ tempo che i media cambino il segno dei racconti e restituiscano tutti interi i volti, le parole e le storie di queste donne e soprattutto la responsabilità di chi le uccide perché incapace di accettare la loro libertà. E ancora una volta come abbiamo già fatto il 13 febbrai del 2010, chiediamo agli uomini di camminare e mobilitarsi con noi, per cercare insieme forme e parole nuove capaci di porre fine a quest’orrore. Le ragazze sulla rete scrivono: con il sorriso di Vanessa viene meno un pezzo d’Italia. Un paese che consente la morte delle donne è un paese che si allontana dall’Europa e dalla civiltà. Vogliamo che l’Italia si distingua per come sceglie di combattere la violenza contro le donne e non per l’inerzia con la quale, tacendo, sceglie di assecondarla.
FERMIAMO LA VIOLENZA SULLE DONNE
Il percorso sulla violenza iniziato da “Se NOn Ora Quando?” con l’appello “Mai più complici”, e conclusosi a Torino, con l’iniziativa organizzata dal Comitato Torinese è solamente la fine di una prima fase di analisi, elaborazione e mobilitazione pubblica lanciata da Se non Ora Quando? per riflettere anche con linguaggi nuovi su questo fenomeno divenuto ormai un tema ineludibile dall’agenda politica del nostro Paese.
Da questo percorso, è nata nel nostro Comitato la consapevolezza dell’importanza di ribadire il nesso fra il tema della violenza e tutte le altre discriminazioni subite ancora oggi dalle donne nel nostro paese.
Il racconto delle donne giovani e meno giovani, che abbiamo incontrato in questi anni nelle molte iniziative, nelle piazze, nelle scuole, nei teatri, compongono un collage di parole e immagini che sono tornate a riempirsi di contenuti simbolici e reali, di valori condivisi ed inclusivi: un racconto a più voci, arricchito da desideri, bisogni, possibilità di scelta, libertà e diritti.
Il sogno di una società diversa, costruita sulla solidarietà tra generi e generazioni, in cui convivono differenze, eguaglianze, pari opportunità: in altri termini una piena cittadinanza.
Tanti ostacoli ancora si frappongono a che questo desiderio diventi realtà:
Diseguaglianze, discriminazioni, privilegi, corruzione, limiti all’accesso e all’esercizio dei diritti umani fondamentali delle donne: la vita, la sicurezza, la salute, il lavoro, il benessere, il diritto alla maternità per poi arrivare fino ai diritti politici ed economici.
Capire le ragioni profonde di quella costante negazione di cittadinanza, in ogni ambito della vita pubblica e privata è il primo passo da cui partire. E questo abbiamo cercato di fare nelle due giornate dedicate alla violenza organizzate dal nostro Comitato il 13 e 14 ottobre.
Sono stati coinvolti nel dibattito le più alte cariche istituzionali, i centri antiviolenza – esemplare rete di esperienza e competenza, tutta italiana – il servizio pubblico radiotelevisivo, la magistratura e l’avvocatura e poi gli operatori sanitari, i centri di ascolto degli uomini autori di violenza, le antropologhe, le giornaliste, le economiste, le immigrate, gli psicologi, le insegnanti …
Si è parlato di Convenzioni Internazionali, di cultura ed educazione di genere, di media e pubblicità, di formazione professionale, di prevenzione e protezione, di seconda vittimizzazione, di testimoni della violenza, di sistemi giudiziari, di finanziamenti pubblici, costi sociali ed economici della violenza, di necessaria diffusione della parità e della democrazia paritaria.
Sono stati individuati i nessi tra le discriminazioni che sono all’origine della violenza e la mancanza delle donne nei luoghi decisionali dell’ economia, della politica, dei media e della produzione culturale, anche contemporanea.
Si è ribadito ancora una volta che la violenza sulle donne ha spesso un volto invisibile, nascosta perchè non denunciata; multiforme perchè si concretizza in molti modi, trasversale ad ogni categoria sociale, etnia, religione e latitudine; orribile e raccapricciante, per le modalità con cui e si manifesta per soffocare gli aneliti di libertà.
Ma la violenza, svelando se stessa, svela tutte le discriminazioni E dunque il grande appello, “Mai più complici”, ha indicato agli uomini e alle donne le ragioni più profonde della violenza, con il coraggio di toglierle il velo e nominarla.
Il termine femminicidio, che spesso veniva usato per crimini commessi in terre lontane dal nostro Paese o solo da addetti ai lavori, è entrato nel linguaggio comune ed è oggi usato dai media; questo termine così crudo ma così immediato, ha risvegliato le coscienze e messo a nudo la vergogna di un’intera società, una società che non è in grado di far fronte ad un’emergenza come quella della violenza con numeri di vittime impressionanti e di uno Stato che non ritiene di farsi carico di un problema che non è privato, ma pubblico.
Anche molti uomini hanno cominciato a capire che il problema li riguardava, hanno iniziato una seria analisi sulla propria identità, sulle ragioni della violenza di genere, su modelli sociali e culturali stereotipati, sulla qualità della relazione con la donna e con il suo corpo. Hanno voluto parlare con le donne.
Da parte delle istituzioni la firma della Convenzione di Istanbul è un primo passo, ma stiamo ancora aspettando la ratifica della Convezione stessa, senza la quale questo impianto normativo non diventa legge dello stato e quindi rimane lettera morta.
Ribadiamo che la violenza di genere non è un affare “femminile” né uno slogan pre-elettorale: è una questione di democrazia negata che si combatte con trasformazioni culturali e ampiamente condivise, capaci di diffondere l’affermazione della legalità, dei diritti, delle libertà e del reciproco riconoscimento dei generi. Dunque, oltre che di leggi, abbiamo bisogno di una politica nuova, fatta da uomini e da donne e quindi di una democrazia paritaria.
Il resto, ci a uguriamo, seguirà grazie alla forza delle donne.
(laura onofri)